RISOLTA UNA
CONTROVERSIA SU WORKING MEMORY E CORTECCIA PREFRONTALE
ROBERTO COLONNA
NOTE E
NOTIZIE - Anno XIX – 22 ottobre 2022.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
L’esatto ruolo
svolto dalla corteccia prefrontale laterale (lPFC, da
lateral prefrontal
cortex) nella working memory è oggetto di
dibattito e contesa da molto tempo. L’origine della controversia è da
ricercarsi in primo luogo nelle differenze emerse tra correlati registrati nel
cervello in attività di primati non umani e correlati rilevati nel cervello
attivo di volontari umani. I primi sembrano indicare una funzione di deposito o
“magazzino” delle codifiche funzionali corrispondenti ai contenuti di memoria;
i secondi sembrano chiaramente indicare una funzione di controllo esercitata su
aree recettive della corteccia. È necessario precisare che la divergenza
interpretativa è accentuata dalla difficoltà di comparazione dei dati a
sostegno di ciascuna delle tesi, in quanto metodologicamente eterogenei.
Infatti, gli esiti dello studio sull’area laterale della regione corticale
prefrontale di primati subumani consistono in rilievi elettrofisiologici, mentre
i correlati ottenuti dal cervello attivo di persone volontarie sono istantanee
morfologiche di quadri di neuroimmagine funzionale della stessa area prefrontale.
In estrema
sintesi: i correlati elettrofunzionali nei primati
sono compatibili con un’attività di conservazione delle rappresentazioni
e, dunque, tale ruolo viene riconosciuto alla lPFC
principalmente dai ricercatori impegnati in studi che hanno adottato questo
metodo e questi probandi; i quadri di neuroimmagine funzionale nell’uomo
suggeriscono un controllo delle cortecce sensoriali da parte della lPFC. Un altro elemento che complica il giudizio è dato
dalle differenze nell’esercizio al compito (task training) e nell’esposizione
allo stimolo.
Jacob A.
Miller, Arielle Tambini, Anastasia Kiyonaga e Mark D’Esposito hanno esplorato una possibilità
molto stimolante per l’interpretazione della differenza di rilievi, ossia se l’esercizio
a lungo termine modifica il ruolo della lPFC nella working
memory.
I risultati
dello studio sembrano essere illuminanti e possono condurre alla definitiva risoluzione
della controversia.
(Miller J.
A. et al., Long-term learning transform prefrontal cortex
representation during working memory. Neuron – Epub ahead
of print doi: 10.1016/j.neuron.2022.09.019, 2022).
La provenienza degli autori è la seguente: Helen
Willis Neuroscience Institute, University of California, Berkley, CA (USA); Department
of Psychology, University of California, Berkley, CA (USA); Wu Tsai Institute,
Department of Psychiatry, Yale University, New Haven, CT (USA); Center for
Biomedical Imaging and Neuromodulation, Nathan Kline Institute for Psychiatric
Research, Orangeburg, NY (USA); Department of Cognitive Science, University of
California, San Diego, CA (USA).
Riprendo qui, traendole dalla prefazione a The Prefrontal Cortex, le parole di Joaquin Fuster, lo
scopritore delle cellule della memoria nella corteccia prefrontale, per
introdurre il lavoro sperimentale qui recensito.
“La scoperta delle cellule della memoria nella
corteccia prefrontale della scimmia ha avuto un ruolo importante nell’ispirare
la prima edizione di questo libro. Comunque, prima e dopo la sua pubblicazione,
molti erano soliti chiedermi – con malcelata perplessità – quale è esattamente
la funzione di queste cellule? All’inizio io le ho chiamate “memoria a breve
termine”, poi “memoria temporanea”, poi “memoria provvisoria”, poi “memoria
attiva”, poi “memoria attiva a breve termine”. Nessuna di queste caratterizzazioni
è divenuta ampiamente accettata per ciò che molti di noi stavano osservando
nella scimmia. Nel frattempo, come se stessi provando a fermare con le mani l’onda
di una marea, io resistevo strenuamente all’uso del termine “working memory” (memoria
di funzionamento), che ritenevo estraneo al fenomeno. Dopo la terza
edizione, tuttavia, io abbandonai la battaglia. Quel termine era stato quasi
universalmente adottato per designare la funzione dietro la persistente scarica
delle cellule prefrontali durante il mantenimento di una memoria per un’azione.
Manipolando le modalità del memorandum, noi osservammo il fenomeno anche
in altre cortecce associative”[1].
La working memory (WM), secondo Fuster, è l’abilità
di ritenere un elemento di informazione nella prospettiva dell’esecuzione di un’azione
che è dipendente da quella informazione[2].
Costituisce una funzione cognitiva essenziale per la mediazione delle
contingenze cross-temporali nell’integrazione temporale del ragionamento, del discorso
e del comportamento finalizzato a uno scopo. I pazienti con lesione frontale
tipicamente presentano compromissione prestazionale della working memory,
specialmente se riguarda la parte laterale, ossia la lPFC.
Jacob A.
Miller, Arielle Tambini, Anastasia Kiyonaga e Mark D’Esposito hanno analizzato la possibilità
che il training protratto possa modificare la funzione della lPFC e, a questo fine, hanno campionato in maniera
straordinariamente densa l’attività di WM mediante la risonanza
magnetica funzionale (fMRI, da functional magnetic resonance imaging).
Durante un
periodo di 3 mesi, i volontari partecipanti allo studio sono stati esercitati
sulla WM e su un compito a tempo di reazione seriale (SRT, da serial reaction
time), in cui stimoli frattali erano inseriti nelle sequenze. Le
prestazioni di WM
risultavano significativamente migliorate per i frattali inclusi nell’esercizio,
ma non per i frattali nuovi e, da un punto di vista neurale, il ritardo di
attività aumentava nei voxel distribuiti di lPFC
nel corso dell’apprendimento.
Le rappresentazioni di WM al livello dei singoli item
diventavano rilevabili all’interno dei pattern di lPFC
e l’attività di lPFC rifletteva le relazioni di
sequenza originate dal compito SRT.
Questi risultati dimostrano che la lPFC
umana, con l’apprendimento, sviluppa risposte selettive per lo stimolo, e che
le rappresentazioni di WM sono modellate dall’esperienza di lunga durata. Tali
esiti, dimostrando l’evoluzione di ruolo della corteccia prefrontale laterale con
l’apprendimento, che è una costante nella realtà umana, consentono di
riconciliare l’apparente discrepanza tra i rilievi elettrofisiologici nella
scimmia e le immagini fMRI nell’uomo.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle
recensioni di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Roberto Colonna
BM&L-22 ottobre
2022
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